Pierluigi Cappello - parte I
Restare
Gli occhi si sono fatti di sale nel voltarmi
i pensieri si sono fermati nei gesti, nel silenzio delle cose fatte;
ho raccolto le briciole del dopopranzo
e le ho scosse nell'aria vitrea del giardino
dove è appena spiovuto e irrompe il sole.
Qui, anche il più lieve soprassalto del merlo oltre la siepe
sta fermo e stanno ferme le mie parole come navi in bottiglia.
La vostra lingua è la mia, ma la mia non è la vostra
mi sono sentito pensare mentre in casa lampeggia in penombra
il televisore e una musica epica diffonde l'eleganza di una berlina.
Tengo per me cos'è curare il fuoco
l'odore spesso di legna bagnata, lo stoppino fra le dita
lo stare di tutti i giorni nelle cose da fare, dentro un'altra luce
rotta dalle nuvole, un diverso tramontare allacciato agli alberi alti
pieno negli occhi delle case, sulle bestie dei poveri;
un po' qua un po' là
si sta soli così, oggi, un giorno così, un giorno più soli.
Una rosa
Che cos'è quella rosa sul tavolo
ferma nella sua freschezza come un lago alpino
alta nel suo silenzio più del fragore
dei quotidiani affastellati lì accanto
più del disordine dei notiziari,
la concitazione delle chiavi di casa.
Che cos'è questa parola verdeggiante d'amore
se non il suolo dove lasciarsi cadere
la penombra di un bosco da attraversare
e la mano che si apre e prende la mia
e mi conduce a me.
In genere non mi soffermo sulla biografia degli autori, lascio che i loro versi parlino alla sensibilità dei lettori ed in qualche modo si presentino essi, da soli, indipendentemente dal vissuto del poeta che li ha composti. Per Cappello ritengo necessario fare eccezione.
La sua vita drammatica e breve è talmente connaturata con la poesia e la poesia talmente espressione, reale e sublimata insieme, di quella vita, che non mi pare possibile prescindere dalla sua esemplare vicenda umana di completezza, di dolore, di morte. Poiché sulla biografia di Cappello, quindi, mi soffermerò a scrivere più a lungo del solito, ed un eccesso di sintesi sulla sua poesia potrebbe risultare riduttivo del suo valore artistico, eccezionalmente ne parlerò in due diversi appuntamenti delle nostre Letture condivise.
La sua vita breve, dunque.
È morto a cinquant’anni il 1° ottobre del 2017. Nato a Gemona nel Friuli l’8 agosto 1967, era originario di Chiusaforte, località di montagna, in una gola - come dice l’autore - “allagata dall’ombra” tra le montagne, neve, pietraie, cose che
“avevano confini piccoli, gli orti poveri, le cataste
di ceppi che erano state un’eco di tempo in tempo rincorsa
di falda in falda dentro il buio”.
La casa era stata costruita, pietra su pietra, con metodici risparmi e immensa fatica fisica dai suoi antenati. Lì dai cinque agli otto anni, come l’autore stesso ci racconta in Questa libertà, Rizzoli 2013,
“d’inverno aspettavo il ritorno di mio padre. Lavorava ad Arnoldstein come scaricatore, tornava la sera sotto una cerata verde... mio fratello ed io gli correvamo incontro abbracciandogli le gambe nella penombra del corridoio. Nei suoi pantaloni di velluto a coste si fermava l’odore del lavoro: limatura di ferro, grasso di camion, legno, catrame”.
Non aveva ancora nove anni Pierluigi, quando alle 21 del 6 maggio 1976 la prima scossa del violento terremoto del Friuli abbatté la vecchia casa: la famiglia, sfollata, rientrò nel ’77 e faticosamente ricostruì pietra su pietra.
Crescendo l’autore, che diceva sempre di “appartenere al cielo” più che alla terra, si iscrisse e frequentò ad Udine l’Istituto aeronautico. Era un bellissimo giovane, sportivo, promettente campione di atletica leggera. A sedici anni la tragedia. La racconta il poeta e saggista Alessandro Fo nella vasta prefazione a Un prato in pendio. Tutte le poesie 1992-2017, di Pierluigi Capello, Rizzoli BUR 2018:
“Un pomeriggio accettò un passaggio in moto da un amico. La moto uscì di strada e si schiantò su una roccia. L’amico perse la vita, Pierluigi riportò lesioni gravissime che hanno trasformato la sua esistenza in un calvario ospedaliero e l’hanno costretto per sempre su una sedia a rotelle. Il commento del medico accompagna la diagnosi con le parole della condanna all’ergastolo:
fine pena mai”.
Dopo i diciotto mesi d’ospedale, nella sua esistenza da invalido grave Cappello, che si sentiva votato per il cielo, si costruì una vita “aerea”, votata sì alla terra ma all’ariosità della scrittura, della poesia in particolare, che riesce a rendere sopportabile, per chi abbia notevole forza d’animo, ogni bruttura, ogni degradazione fisica della malattia.
In primo luogo si è affinata in lui una sensibilità poetica attraverso la meditazione, allenandosi l’autore a dover considerare il mondo e la sua vita dalla realtà di una sedia a rotelle, invalidante, senza rimedio. In Cappello questa situazione non lede, anzi acuisce, la voglia di capire, di fare, di amare la vita, di coglierla a costo di spostarsi a parlare nelle scuole e poi a ritirare premi per l’Italia, in ambulanza sempre, per tutto il resto della vita.
La capacità di cogliere le sottigliezze della realtà passa attraverso un’estenuata intelligenza emotiva, affinata da lunghe ore in solitudine, nel dolore, nella ricerca del senso di una vita difficile e nel trovarlo, questo senso, senza autocompiangersi, senza chiedersi: perché proprio a me?
Il risultato è una poesia immensa, vitale e crepuscolare insieme, coinvolgente per forza immaginativa e perché fa parlare in modo nuovo le piccole cose della natura e della quotidianità. Le anima di vita: sono come persone che condividono i momenti di solitudine umana, accompagnandone la sorte. Ma per chi ama la vita segreta, i destini, ricercati, di cose e paesaggi, c’è l’incontro col metafisico, col senso della storia, individuale e collettiva, e - direi di più - col Cosmo, coll’Universo. L’autenticità del dire si trasferisce immediatamente al lettore, da anima ad anima. Ci si trova a sentire ciò che è vero e lo si discrimina istintivamente da ciò che è infingimento, buona costruzione artigianale, magari, ma che è costruzione a tavolino. Non testa, animata dal cuore, dalla propria verità. Ripeto sempre: Poesia non è un prodotto di vendita, ma un modo di essere e di sentire. La fantasia, l’immaginazione sono state la sua forza: anche il letto in cui fu relegato nei lunghi soggiorni clinici (lottò a lungo contro il cancro, prima di essere vinto) diventò, come disse, “un tappeto volante” con cui trasformò una disgrazia in una nuova occasione. La comunicazione con gli altri e le amicizie sincere gli riempirono la vita.
Susanna Tamaro, amica di tanti anni, dopo la morte di lui ha scritto il libro Il tuo sguardo illumina il mondo, Edizioni Solferino 2018, in cui rievoca un’amicizia speciale, una vicinanza suggellata anche dalla loro disabilità, seppure diversa: lei con una sindrome neurologica cronica che, fin dall’infanzia, l’ha confinata in una dimensione di “diversità” e solitudine.
Il cantautore Jovanotti, che scrisse per Cappello la prefazione al libro Stato di quiete, Rizzoli BUR 2016, coetaneo del poeta, pur non avendolo mai incontrato di persona, fu a lui legato da grande amicizia epistolare. Dovevano conoscersi in un appuntamento concordato proprio nei giorni in cui il poeta morì: Jovanotti ha creato in memoria della loro strana vicinanza la bella canzone Le tasche piene di sassi, riprendendo proprio un verso di Pierluigi Cappello, citato dalla poesia che vi propongo.
I vostri nomi
Ieri sono passato a trovarti, papà,
la luce in questi giorni non è tagliata dall'ombra
negli alberi senza vento c'è l'odore secco dell'aria
per come posso, ti ho portato il racconto dei temporali,
l’odore di inverno sulle tempie
a Chiusaforte è nevicato, nevica sempre
e le fontane sono ghiacciate
penso, per qualche momento, che tu sia ancora lassù
ad accatastare legna con cura
e in luoghi come questi
la casa di riposo con la pista per le bocce
dove state raccolti come le foglie nel parco
uniti nell'attesa, lontani dalle città assediate.
Dicevate domani, dicevate questo è il figlio
e con il silenzio del fischio nella bufera
i vostri nomi sono andati via
voi che siete stati popolo e ombra
remissione e forza
il tuo nome, papà, e quello di Bruno, che non era un'antilope
e tirava sassate al pettirosso sul ramo più alto
o quello di Giordano, o quello di Cesare, o quello di Alfredo, l'artigliere
o quello di quelli che, come te, sono stati bambini
che hanno detto domani.
E adesso non è troppo dire
quanto poche sono le foglie cadute
sui giorni di novembre
per dire cos'è l'inverno negli occhi mentre viene
tutto il poco possibile è qui,
nei vostri corpi piegati come l'ulivo
sulle vostre facce di monete graffiate
in questo spazio, in questo tempo confusi
come il cielo e la terra quando nevica,
e se c'è un'uscita, papà, anche se non posso dire domani,
la sua luce sulla soglia
è questo stare dei tuoi occhi dentro i miei
questo pensarvi vivi, liberi e scalzi
le tasche piene di sassi, la memoria di voi
che trema in noi
come una stella incoronata di buio.
Secondo un’opinione puramente personale ritengo I vostri nomi una delle più belle poesie scritte da un figlio per il padre, in sincerità e completezza. È una poesia affettuosa ma anche austera, civile: parla a generazioni intere del nostro recente passato. Non c’è retorica né sentimentalismo piagnucoloso, ma una tenerezza che è spontanea e che è dei grandi, come afferma lo psichiatra-umanista Eugenio Borgna nel suo splendido volume Saggezza, Il Mulino 2019. La tenerezza è dote misconosciuta e rara ma indispensabile nell’arte quotidiana di vivere, che rischia oggi di smarrire speranze ed ideali, senza i quali non è possibile dare senso alla vita. “Non c’è cura - dice Borgna - cura dell’anima e cura del corpo se non è intessuta di saggezza e di gentilezza, che nascono dal cuore dell’interiorità e dalla consapevolezza che siamo tutti chiamati a un comune destino di dignità e solidarietà” .
Riscontro nella poesia I vostri nomi la totale mancanza del gusto contemporaneo, una moda di inanellare metafore e poi costruirvi intorno un testo poetico con un lavoro metodico a tavolino.. Questo “sentire” in autenticità il mondo dalla sua stanza, dal suo giardino, dal circoscritto suo limite del “qui” coinvolge il lettore in maniera straordinaria. Dal “qui” ad un “oltre” che è umanità, storia, metafisica e terra, nuvole e cielo, il passo diventa breve. La spontaneità e il suono espressivamente nitido della parola nella sua semplicità nuda non raffreddano le atmosfere poetiche, anzi le esaltano.
E per concludere oggi la prima parte della condivisione su Luigi Cappello, la lettura di tre poesie sul tema della natura ed affetti di vario tipo.
Pratoline
Alla piccola Chiara
La bocca è un'alba schiusa
la meraviglia è nelle cose guardate
giri una corolla tra l'indice e il pollice,
l'imprecisione del gesto lascia splendore
un giorno
l'ombra ti sarà restituita
la cenere negli occhi
per camminare più sicura, legati alla terra
sguardo e condanna
le pratoline fioriscono nel verde
in ferocia e purezza, la vita senza memoria
i tuoi piedini nel sole.
Sonno estivo
Seduti, le gambe allungate nel silenzio,
uno a uno ci siamo portati i nostri giorni
solitudine con solitudine, impazienza e attesa;
e adesso che le tue spalle sono vicine alle mie
che il mio calore è il tuo,
quanto so dimenticare è nell'indugio
delle dita avventurate sulla tua pelle bionda,
sui tuoi capelli scuri,
nella paura che avvicina il nostro corso di scampati
senza rumore e senza appello, come quando
il verde di marzo spinge dai rami
e si fa abbracciare dal mondo,
come quando l'aria vive nello screzio
degli alberi carichi di luce
e c'è penombra nella stanza,
e la pace del prato è nei tuoi occhi,
ci perdona, si stringe intorno a noi.
Scritta da un margine
Non si tratta di riempire, si tratta
di far parlare il vuoto. L'ortensia
si è piegata al frutto della luce
ma non c'è tensione oltre le siepi di lauro,
nella tenue foschia di mezza mattina. Sarà
il tremolare delle gemme di marzo, sarà
l'aria spartita dal raschio di un autocarro
e il ricomporsi del silenzio che chiude una scia.
Dalla testolina di un passero, la prospettiva
accompagna lo sguardo alle quinte di alberi alti
dove il cielo si rompe in turgore e il bianco
ha il sapore di un inno; si vive
appena sopra la superficie del sogno
e tutto accade a un passo da qui.