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Margherita Guidacci



Margherita Guidacci

(Firenze 25 aprile 1921 – Roma 19 giugno 1992)

 

     Margherita Guidacci è una poetessa traduttrice, importante nel pensiero e originale nell’espressione, ma piuttosto misconosciuta ai suoi tempi, forse perché di carattere particolarmente introspettivo e isolata, riservata un po’ come Cristina Campo, che le era coetanea (essendo nata due anni dopo, nel ‘23, ma morta giovane nel ‘77). Entrambe in effetti in una società, anche a livello intellettuale, perfettamente maschilista sono state riconosciute sostanzialmente dopo la morte.

     Da tempo sulla Guidacci fervono lavori di ricerca e di critica profondamente lusinghieri, tant’è che la sua poesia, considerata testimoniale e profetica, ha fatto dire a Caproni, Luzi, Spagnoletti, Pampaloni, che il suo dire è eccezionale e la sua è una delle voci europee (non italiane, dico) più alte della seconda metà del Novecento che, anche senza riconoscimento ufficiale, supera con la sua arte quasi tutti i celebrati poeti maschi. In comune con la Campo, direi, la Guidacci aveva una base culturale particolarmente vasta, su base logico-razionale: la sua cultura non è ‘femminile’, come si intendeva allora, ma ‘maschile’: è una poesia di pensiero meditato e approfondito filosoficamente, anche nei testi che potrebbero apparire più individuali e lirici; in realtà spesso emergono come sintesi di elaborazione non solo di pensieri altrui, ma anche di testi poetici altrui (soprattutto, ma non solo, dei poeti amati, da lei magistralmente tradotti: Donne, Eliot, Dickinson). In questo caso lei parte nei suoi assunti proprio dal punto di arrivo di certe poesie altrui. Vi farò qualche esempio più avanti. I poeti che considera sono tra le voci più alte, ma anche più difficili e ardue, del Novecento. Valga per tutti, come vedremo per esempio, la figura di Rilke.

     Altra cosa che lega Guidacci e Campo è l’infanzia difficile: per la Campo, a causa della anomalia cardiaca congenita che l’isolò dagli altri bambini e non le permise di frequentare né asilo né scuole primarie, per la Guidacci una serie di lutti familiari o malattie gravi di parenti. Crebbe in campagna col cugino, il poeta Nicola Lisi, che la influenzò parecchio, visto che le tematiche di lui erano di ispirazione introspettiva, soprattutto di carattere religioso. Nel 1943, a ventidue anni, si laureò all’Università di Firenze con una tesi su Ungaretti, relatore Giuseppe De Robertis. Era riuscita a farsi ammettere a stento nel gruppo dei suoi studenti, che erano già numericamente al limite. Lei era assegnata alla classe del Momigliano, maestro illustre e importante, ma più per i suoi libri e le sue conferenze, nonché per le sue dispense bellissime, ma facilmente acquistabili, che per le lezioni universitarie che sapevano troppo di conferenza, cosicché il contatto con gli studenti era molto relativo. De Robertis, invece, dialogava con loro, interferiva, a metà lezione li interpellava, a gruppi li invitava a casa o a un caffè e badava seriamente alla loro formazione attraverso gruppi di studio e confronto diretto.

     La Guidacci veniva definita dal professor De Robertis superba come il demonio, ma di mente straordinaria. Paradossale definizione, perché lei era invece solo estremamente riservata per timidezza nei rapporti umani, non era affatto presuntuosa né superba, quanto invece sicura del suo pensiero, delle sue scelte. Una volta laureata, tuttavia, si specializzò in Letteratura inglese e americana e tradusse infatti, come vi dissi, nel tempo magistralmente John Donne, Eliot e soprattutto Emily Dickinson, di cui per decenni fu considerata interprete ufficiale in Italia. Per qualche anno dal ‘45 insegnò nei licei latino e greco, ma negli anni ‘60 una grave depressione la condusse al ricovero in una clinica neurologica. Periodo buio: nasce da lì la raccolta Neurosuite nel 1970. Dal ‘76 fu docente di Letteratura anglo-americana a Macerata e poi a Roma dal 1981, avendo conseguito la libera docenza. Ma intanto aveva perso gli affetti più cari, la madre e il marito da cui aveva avuto tre figli, Luca Pinna, sposato nel ‘42 a ventotto anni. Si intensifica allora la scrittura poetica: L’altare di Isenheim, 1980; Il buio e lo splendore, 1989; Anelli del tempo è pubblicato postumo. Un ictus la colpì nel ‘90 e morì due anni dopo. Molto interessante comunque, va detto, la sua opera prima in versi, pubblicata a venticinque anni, La sabbia e l’angelo, Vallecchi 1946.

 

     Perché non venne sufficientemente apprezzata dai contemporanei la Guidacci? Perché non era poetessa catalogabile e soprattutto, in clima di Ermetismo, non amava quella corrente. Si diceva incompatibile anzi a quanto fosse legato all’Ermetismo, perché secondo lei questo movimento si fondava più su un accostamento ad effetto di sonorità verbali che su un accostamento drammatico di significati. Per lei è il contenuto, cioè il pensiero, l’idea, ad essere predominante: la poesia deve insegnare a vivere, deve superare quindi il contingente, il transitorio (e quindi le mode e le correnti del dire) per arrivare a fare acquisire una coscienza universale: comunque l’obiettivo per lei è l’essenzialità dei contenuti più che la sonorità del verso e le figure fonetiche e formali. In una lettera del giugno 1987 all’amica Margherita Pieracci Harwell ho scoperto che la Guidacci la pensava proprio come me (o meglio io, senza saperlo, come lei, visto che sono più giovane).  È un pensiero che propongo spesso, perché al di là delle mode e delle correnti poetiche, che vanno e vengono, ho uniformato la mia vita dal punto di vista poetico culturale, vita piuttosto riposta, fuori dai giri letterari e totalmente estranea ai social e a tutto ciò che renda visibile la figura dell’autore di poesia: Penso che quando muore un autore, specie in un’epoca come la nostra, contrassegnata dalla massima fretta, sia normale che le opere rimangano per un po’ sottoterra anche loro. Lì, se erano effimere si disgregano, se erano valide, mettono radici, come i semi, e rispuntano più rigogliose che mai, questo è stato, e sarà sempre più il caso della Vittoria. Ovviamente la Vittoria di cui si parla è Vittoria Guerrieri, cioè Cristina Campo, di cui sappiamo non fu pubblicato nulla in vita (erano diventate amiche in giovinezza) e che di sé stessa diceva: ho scritto poco, soprattutto in poesia (30 componimenti), ma vorrei avere scritto ancor meno!

     Ho accennato poco fa all’opera del ‘46 della Guidacci, La sabbia e l’angelo, lavoro molto difficile e importante. Lei riprende Rainer Maria Rilke nella sua opera più consistente, Elegie duinesi.  È un libro intessuto di meditazioni, sentenze, di sapore metafisico-sapienziale; temi sono quegli stati estremi dell’essere umano, oscillanti tra un umano perituro, sabbia (uguale a polvere, in cui ci trasformeremo) ed esigenza metafisica, cioè l’Angelo, eterno incorruttibile. Praticamente in un dialogo a distanza con Rilke, Guidacci ripercorre, tra i poli opposti di vita e di morte, le dieci elegie duinesi, che erano state pubblicate a Firenze da Leone Traverso e da Vincenzo Errante nel 1942 (Tutto Rilke – prose e poesie). Nello stesso anno una selezione di poesie di Rilke usciva anche per Einaudi, traduzione di Giaime Pintor. Sabbia e Angelo, termini antinomici di visibile – invisibile nella prospettiva del destino umano, rappresentano il frantumarsi di ogni opera umana e dell’uomo stesso, mentre l’Angelo, analogamente a Rilke, può essere il braccio dell’invisibile che all’Invisibile (con la I maiuscola) conduce.

     Lo spirito altamente metafisico filosofico-religioso impegna allo stesso modo la poesia di entrambi. Diventa arduo in questa sede dilungarmi e a troppo sintetizzare si pecca di superficialità. Rimando quindi, per chi volesse approfondire i testi, al magnifico lavoro di Annamaria Tamburini, Essi fra noi per sempre. La presenza di Rilke nella prima Guidacci, pagg. 97 - 139 in: Preghiere per la notte dell’anima – Convegno di studi su Margherita Guidacci 1991-92, Edizioni Feeria – Comunità di San Leolino (Firenze) 2019.

 

     Prima di passare alla lettura dei testi, ancora un accenno alla vita della poetessa, a un suo legame particolarmente importante nella vita e nella sua poesia.  È un legame importantissimo con Francisco Canepa, un reincontro inaspettato nel 1982, dopo trentasei anni: un incontro fra adulti, che per lei si configura non solo come amicizia suprema, ma come il volto dell’amore umano, quasi nunziale. Lei prende da lui, cileno, immagini poetiche, metafore ardite: delfini del cielo, il torrente dei tuoi sentimenti. Il derubato di immagini è consenziente e felice. Lui, che lei chiama spesso il mietitore o l’arcangelo o il porgitore di stelle, le ispira molti testi di Inno alla gioia, come Fiume carsico, Di notte in sogno, Finale, Erba dei muri. Ma è un amore fisicamente impossibile. Lei sarebbe libera: quando lo incontrò la prima volta non era sposata, ora è vedova, ma lo sposato è lui. Spesso la lontananza fisica col Cile rende difficoltoso il rapporto: lei teme in Italia pettegolezzi e i giudizi pesanti dell’ambiente.  È comunque una donna, a metà circa degli anni Ottanta, per quanto così intellettualmente in gamba ed emancipata, troppo prona al giudizio della ‘gente’ e quindi poco sicura di sé nello scegliersi la vita. Del resto la sua moralità la porta ad una visione religiosa piuttosto tradizionale e severa.

    La sua visione del mondo è poco incline alla gioia: l’umanità è trafitta da patimenti: il dolore nobilita l’uomo avvicinandolo alla croce e la sua è una teologia del dolore, in cui modello e conforto, nonché guida da seguire, è la Madonna addolorata. La vecchiaia è un periodo che ci prepara alla morte e che ci rende sempre più estranei a questo mondo. L’accettazione, il sacrificio, il dono di sé nella carità fanno superare la discesa agli Inferi che tocca tutti (vedi esperienza malattia mentale). Un aiuto proviene, per chi ne è destinato, dalle esperienze mistiche (vedi San Giovanni della croce).

    Insomma, anche la religione della Guidacci assume un senso pesante, arduo, non di letizia ma di pena. Personaggio profondo, di grande ‘fatica esistenziale’, lo definirei.

Passiamo alle poesie.

Marvi del Pozzo

 

Da La sabbia e l’angelo, 1946

 

MEDITAZIONI E SENTENZE

I

Chi grida sull’alto spartiacque è udito da entrambe le valli.

Perciò la voce dei poeti intendono i viventi ed i morti.

V

Il mondo è cosi diviso: in principio è la brezza;

E poi vi sono le cose che con voce o con gesto alla brezza rispondono;

E poi vi è anche la pietra crudele, che tronca il volo alla brezza,

E su cui nulla che alla brezza risponda può germinare.

XVII

Non le visioni sgomentano l’uomo – ma l’ombra che si muove

Sul fondo di solitari specchi o nelle gravi acque d’attesa.

Non il gesto od il grido – ma nel deserto del cuore

Le lente vibrazioni di un silenzio insondabile.

XIX

Le foci dei fiumi sono sorgenti del mare, ed il mare è sorgente

Di nubi, e le nubi sorgenti di sorgenti. Così in sicuri

Anelli intorno a noi si muovono spazio e tempo

Finché domini l’eterno immutabile.

 

LA SABBIA E L’ANGELO

I

Non occorrevano i templi in rovina sul limitare dei deserti,

Con le colonne mozze e le gradinate che in nessun luogo conducono;

 

Né i relitti insabbiati, le ossa biancheggianti lungo il mare;

E nemmeno la violenza del fuoco contro i nostri campi e le case.

 

Bastava che l’ombra sorgesse dall’angolo più quieto della stanza,

 

O vegliasse dietro la nostra porta socchiusa –

La fine pioggia ai vetri, un pezzo di latta che gemesse nel vento:

 

Noi sapevamo già di appartenere alla morte.

II

Se vuoi lasciare la tua impronta, o uomo, scalfisci piuttosto la sabbia,

Perché la più alta torre diverrà sabbia alla fine.

Scrivi il tuo nome sul lido deserto, e prega il mare che

[presto lo cuopra di lamento:

Perché tu stesso sei sabbia, sei la morte che dopo te rimane.

V

Furono ultime a staccarsi le voci. Non le voci tremende

Della guerra e degli uragani,

E nemmeno voci umane ed amate,

Ma mormorii d’erbe e d’acque, risa di vento, frusciare

Di fronde tra cui scoiattoli invisibili giocavano,

Ronzio felice d’insetti attraverso molte estati

Fino a quell’insetto che più insistente ronzava

Nella stanza dove noi non volevamo morire.

E tutto si confuse in una nota, in un fermo

E sommesso tumulto, come quello del sangue

Quando era vivo il nostro sangue. Ma sapevamo ormai

Che a tutto ciò era impossibile rispondere.

E quando l’Angelo ci chiese: «Volete ancora ricordare?»

Noi stessi l’implorammo: «Lascia che venga il silenzio!»

 

Da Inno alla gioia 1982

 

QUANTE STRADE HAI PERCORSO

Quante strade hai percorso

dove non ero, e quanti cieli hai veduto

di cui non ho la più pallida idea.

So che di là ti vengono segnali -

ma non so interpretarli. Nel silenzio

ai cui orli mi arresto, forse traversi ancora

la pianura nevosa dove rischiasti

in guerra la tua vita. O forse torni

ancor più indietro: arde la Croce australe

su una lontana fanciullezza,

e il grande uccello ch’io non conosco, il condor,

batte le ali nella tua memoria.

 

SEI MESI FA

Sei mesi fa al mattino non sapevo

in che parte del mondo tu fossi, anzi neppure

se tu fossi ancora al mondo. E se c’eri,

come sapere se mi ricordavi?

 

Ma a sera la mia anima beveva la tua voce

come beve la pioggia una terra arida.

Ogni affanno presente era caduto,

ogni dolce pensiero giacente si rialzava,

i lunghi anni di distanza perdevano

all’improvviso il peso e lo spessore.

 

Di tutta la mia vita passata

non restava che il diafano vetro

d’una finestra dalla quale

io ti guardavo venire.

 

FINALE

«Finale», la stazione dove salisti

nel mio scompartimento: mai vi fu nome più appropriato!

Finale di quel viaggio e anche dell’altro, la mia vita,

dopo una cosi lunga separazione

che misurarla dava le vertigini.

Le nostre mani si cercarono, occhi ansiosi evocarono

dai nostri visi segnati dal tempo

i due giovani visi d’una volta.

Il treno intanto correva lungo il mare,

il suo rumore come la frana dei giorni

lasciati indietro, andando verso un futuro

anch’esso pronto a franare: insulto

della vecchiaia, l’ultimo declino

che ci attende ed il nuovo

e necessario addio ... Lo sapevamo,

ma le tue mani stringevano le mie

e più nulla contava.

Né conta ora. Il nostro è amore d’anima.

E noi siamo più grandi

di tutto quello che ci può accadere.

 

Da Il vuoto e le forme 1977

 

IL TUO RICORDO

Il tuo ricordo, sul fondo

della mia solitudine,

ne rivela l’ampiezza

e tuttavia la limita.

 

Cosi un canto d’uccello

addolcisce l’immensità del cielo

e una singola vela

rende umano il mare.

 

Da Poesie per poeti 1987

 

EURIDICE

Al poeta Febo Delfi

nel ricordo della sua Maria

Non adirarti con te stesso se la dolcezza del giorno

s’insinua in te di nuovo, se involontario sorridi

al primo sole che ti sfiora le palpebre.

E subito il ricordo degli occhi tanto cari

che più non possono vederlo, chiusi

nella morte, ti accora... Ma quegli occhi

ora lo cercano attraverso i tuoi;

il bel corpo che amasti, nel tuo memore

sangue ancora vibra, il misterioso silenzio

si scioglie nel tuo canto, Febo: ché sempre i morti

rispondono alla vita, pur se invisibili.

Tu sai che col suo passo lievissimo Euridice

seguiva Orfeo e più ancora quel chiarore

che oltre di lui si profilava fioco,

ma sempre meno fioco, già alla bocca

della caverna, annunziando il caldo mondo

da cui ella era attratta. Cosi l’avesse

fissato Orfeo! Finché amiamo la vita

noi le rechiamo, nella nostra scia,

ogni essere amato. Ma se lo sguardo,

come avvenne ad Orfeo, si volge indietro

(qual che ne sia l’impulso) verso il buio ed il gelo,

in quell’attimo inesorabilmente

rendiamo all’Ade tutto il suo potere

su chi già ne fu preda – e su di noi.

 

Da Anelli del tempo 1993

 

ALL’IPOTETICO LETTORE

Ho messo la mia anima fra le tue mani.

Curvale a nido. Essa non vuole altro

che riposare in te.

Ma schiudile se un giorno

le sentirai fuggire. Fa’ che siano

allora come foglie e come vento,

assecondando il suo volo.

E sappi che l’affetto nell’addio

non è minore che nell’incontro. Rimane

uguale e sarà eterno. Ma diverse

sono talvolta le vie da percorrere

in obbedienza al destino.

 

STELLA CADENTE

Alcuni desideri si adempiranno.

Altri saranno respinti. Ma io

sarò passata splendendo

per un attimo. Anche se nessuno

mi avesse guardata

risulterebbe ugualmente giustificato –

per quel lucente attimo – il mio esistere.

 

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