Gianpiero Casagrande
"Primo tempo"
(Edizioni Tripla 2023)
Gianpiero Casagrande, intellettuale torinese laureato in Storia moderna, vive e lavora tra Saluzzo e Pinerolo, territori del Piemonte, culturalmente e storicamente tra i più vivi e aristocratici, soprattutto per gli influssi francesi che perdurarono nei secoli, palleggiandosi il regno di Francia con i Savoia queste zone a lungo, per importanza strategica e militare. Pinerolo, in particolare, fu annessa alla Francia dal 1536 al 1574 e nuovamente occupata col trattato di Cherasco del 1631, diventando una straordinaria piazzaforte grazie all’ingegnere militare Vauban, che restaurò le mura, ricostruì castello e cittadella (e la fortezza ove il Re Sole chiudeva i suoi nemici, tra cui, pare, la misteriosa Maschera di ferro). Nel 1696 Vittorio Amedeo II di Savoia riconquistò la città sulle macerie che le truppe di Luigi XIV lasciarono andandosene, facendo saltare cittadella e castello. Sede dal 1849 della Scuola d’applicazione della Cavalleria del regno sabaudo, Pinerolo ha mantenuto fino ad oggi uno stile di vita e di cultura elegante e raffinato, che lo contraddistingue ancora oggi per il rilievo delle sue manifestazioni intellettuali e per le iniziative che si caratterizzano, pur nella profondità di studio e di preparazione, in forma non ostentata, ma di assoluta sostanza culturale.
In questo clima, che ho descritto in forma diffusa, nasce il libro di Casagrande, Primo tempo, Edizioni Tripla E 2023. È una poesia che mi ha subito colpito, ma non sono certo la sola, se seguo le annotazioni critiche di due tra i più grandi poeti italiani viventi: Giuseppe Conte e Beppe Mariano. Questo però di per sé non vuol dire molto: mi si può a buon diritto obiettare che la poesia è questione sostanzialmente di gusto personale, al di là di quella parte tecnica, formale, che un poeta deve comunque possedere. Che piaccia a due grandissimi poeti è già importante, ma non è tutto. Una poesia figurativamente perfetta può anche non arrivare a tutti, nell’ideazione, nel pensiero, nella capacità di smuovere l’intimo del lettore. Ebbene, la poesia di Casagrande arriva (e credo a tutti) per l’ampiezza di tematiche, per l’umanità dei sentimenti che suscita, perché dalla prima spinta individuale e soggettiva arriva subito alla generalità . Ci si ritrova tutti a meditare sulla memoria, sul bisogno di affetti elementari e sinceri (soprattutto oggi, che tutto ci sfugge di mano perché ci distraiamo in troppe cose insulse, ci disperdiamo in mille rivoli, non sapendo più riconoscere l’essenziale – per noi, intendo – che quasi mai coincide con un essenziale di massa, oggettivamente valido per tutti).
Gianpiero ci aiuta, per esempio, a non perderci in rotte superflue, riportando alla memoria le proprie radici adolescenziali in una Torino un po’ passata, ma che io, vecchia, ricordo bene. Le memorie del suo dire penetrano in fondo all’animo senza leziosi sentimentalismi, con una concretezza pulita, definita. È forse questo realismo, senza facili moine, che rende così dirette queste poesie.
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Il 10
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Ricordi il soldato? giovanissimo ragazzo
come tuo figlio adesso, di leva alla caserma
Monte Grappa, piano terra, dietro una pesante
grata, fumava spento, ripiegato quasi dentro
se stesso. Al vostro passaggio (era solo la terza
di campionato) chiese sommesso «come è andata
la partita?». Alla tua risposta 3 a O parve
ritornare in vita, occhi accesi, persino la sigaretta
si fece più rossa. «Ha segnato Maradona?» urlò
con concitazione. Con non molto coraggio
e anche un po' di pena cercasti di spiegargli
che la vittoria era nostra, del Toro, che il 10
giocò sì, ma francobollato, con poco spazio
e combinò poco (una punizione sulla barriera,
un tiro alto). Lui, ringraziando con un filo
di voce, si spense nuovamente, come la sigaretta,
gettata sul marciapiede ...
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Ma c'era tempo, ancora tanto, era solo
il 30 settembre 1984. Avrebbe conquistato
il pianeta intero, danzando, l'altro ragazzo,
quello pieno di riccioli, nato con il pallone
attaccato al piede sinistro, lo sguardo
fiero, fra le baracche di lamiera
una casa in mattone. Secondo la leggenda
la mamma lo mise al mondo urlando: Rete!
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*
Vien voglia di mare
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È caduto da solo, tra le carte
sul tavolo, senza fare pettegolezzi
o rumore, chissà da quale forza
spinto (gravità , disperazione o predisposizione
naturale), l'ennesimo capello grigio (o bianco,
una sottigliezza la specificazione), segnale
inequivocabile di autunno imminente.
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Anche se oggi gennaio si veste
a primavera e il vento innalza
ad aprile le temperature. Vien voglia
di mare, di respirare aria ligure,
di non pensare ai capelli, al ventre
prominente, alla fatica di correre
e salire le scale. Vien voglia
di quel mare, quando la testa era
sgombra, tutto da scoprire.
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Poi, però, ripassi la strada percorsa,
capisci che non è male, guardi
i figli, l'ininterrotto viaggiare. E vuoi
organizzare tutti insieme la gita
al mare (che i capelli continuino pure
a cadere, ingrigire o imbiancare).
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*
AÏŒristos krÏŒnos
(che sia puntuale e irripetibile)
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Non incide l'idea di tempo, conta
la qualità dell'azione, nessun limite,
 confine, artificiale delimitazione: si fa,
senza specificare quando. Esiste, importa
solo il come, che sia puntuale
e irripetibile (così si intendeva il senso
del vivere, quello di morire).
Airéo - eÃlon: è forte l'aoristo
di prendo, si fonde l'aumento fra sé
e il ricordo di elenchi mandati a mente
innumerevoli volte, fra le pagine
del manuale tenute insieme da consunto
nastro trasparente, da lustri non più
aderente (il passato al modo indicativo,
per il resto un momentaneo evento,
un accadimento dettato dal caso.
Così è, in fondo, il nostro respiro).
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Un altro tema molto presente è nella breve sezione dedicata al Monviso, che domina dall’alto questo prezioso Nord Ovest piemontese. Il discorso della natura qui non è mai monologo, ma si fa sempre sommesso dialogo con l’evocata figura dell’amico poeta Beppe Mariano, che del Monviso è il cantore d’eccellenza da anni, in tante sue opere.
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La salita
Ad ogni cima superata altra ti si propone.
Ogni monte ascendi per capire,
estendi i sensi, la ragione.
Beppe Mariano, MonvisanaÂ
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Nella stagione iniziale si illumina
il sentiero, è una strada, un lusso
il bastone che poni orizzontale
alla schiena, i paracarri lavorati
dal tempo dove, un tempo, i soldati.
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Al compimento di una salita,
dietro una curva, lo sterrato, fine
acciottolato, non fa male ai piedi:
larici, abeti, betulle verso l'alto
catapultate, da compagne al margine
del cammino sono ora bosco, voce
di insetti, frescura - nel fogliame
canto di uccelli nascosti. Man mano
che risali, fra sasso e sasso, l'erba
più insistente, finché il passo svolta
verde e sottile, sopravanza l'ombra:
ti appoggi ora al bastone, anch'esso legno
di ritorno all'origine. È piacere
la fatica. Nel mentre intuisci chi ti
osserva dallo scuro e sui lati
tracce del cibo cacciato dal lupo.
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Poi compare la pietra da scavalcare,
la roccia che ostruisce, che costringe
al confine del dirupo, dove il larice
sciabolato racconta la valanga
invernale, la frana che (frequente)
può capitare. L'albero d'un tratto
si fa fiore, un cardo più spinoso
e colorato, sulla testa il sole
a picco della tarda estate. I colchici
sanno d'autunno imminente, a vista
la neve che non passa e tramanda
la stagione finale.
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Eppure, in cima
vince il tepore, l'aria è tranquilla,
il lago appare felice in una
sua dimensione di rinata pace.
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Di Beppe Mariano è in effetti la sapiente prefazione del libro, in cui viene messa in luce la vicinanza della poesia di Casagrande a quella di Pavese di Lavorare stanca. Dice Mariano: Quanti di noi del resto abbiamo appreso dalla poesia-racconto di Pavese, abbiamo condiviso il suo procedere tutt'altro che avventuroso, bensì organizzato sapientemente in un susseguirsi di immagini-metafora concatenate. In Casagrande il ritmo dei propri versi è altrettanto scandito e riesce ad annodare con naturalezza la fluenza dei ricordi o delle considerazioni «filosofiche» di vita quotidiana che qua e là traspaiono, senza avere più la presunzione dell'aura... La lingua poetica di Casagrande è di fatto piana, agile nei suoi ritmi, ben adatta a incontrare ogni lettore, non soltanto quello «aristocratico».
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Sul tema della famiglia, della terra, del ciclo vitale delle piante, che accompagna i ritmi dell’esistenza umana, vi propongo la lettura dell’Albero dei cachi, proprio perché si riallaccia alle righe di Mariano appena lette. È sicuramente una poesia narrativa o, forse, una prosa poetica, di quelle che stanno andando di moda in questi ultimi anni. Io ho un mio pensiero preciso in merito all’essenza della poesia e alle sue peculiarità , che la fanno differire dalla prosa in modo sostanziale, ma da un lato non intendo condizionare i miei ipotetici lettori né, d’altra parte, limitare in qualche modo la fruizione di questo testo mirabile, per ricchezza di piani di lettura e per poeticità di immagini.
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L'albero dei cachi
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Cominciavano a cadere piccoli sodi
e verdi (chiaro), buoni solo da prendere
a calci e spaccarsi in due parti uguali
o quasi, ad agosto inoltrato, i cachi
dell'albero del giardino, invero un cortile
asfaltato, con ricami d'erba da ciascun
lato affacciato sullo stradale, ai fianchi
del cancello radiocomandato. Libero l'ingresso
alla porta del garage in metallo grigio,
rumorosa rete di calcio e accesso immediato
al tennistavolo che occupava più che utilmente
il luogo di un'auto. Al fondo, naturale quadro,
la finestra a comici rettangolari in bianco
lasciava il campo alla pianura dietro il vetro
e a un Monviso che pareva signoreggiare lontano
e indisturbato.
Dicevano i cachi che sganciavano
i rami prima ancora di pensare a crescere,
a maturare, che l'estate si spegneva lenta
e inesorabile verso il settembre del ritorno
alla città grande (la scuola, i vocabolari,
le pene, gli amici). Niente più giri in bici
per le colline, gli sterrati dei vigneti, pettinati
da zio Carlo, l'ingegnere, nei suoi oli,
negli acquerelli, basta schiena piegata nei noccioleti
ad aiutare i proprietari nella raccolta dei minuscoli
ori per la fabbrica di Alba, quella dei dolciumi.
Mai un solo frutto è giunto in anni al compi-
mento del cammino, ad aranciare al punto
da chiedere solo al cucchiaino di tradurne
alla bocca il sapore. Prima dell'autunno
tutti, regolarmente, avevano disertato le braccia
aperte e spoglie, di frutti di foglie, quasi la pianta
rinsecchisse per non diventare adulta, dimenticare
l'infanzia. Anche tu, d'altra parte, rifiutavi
per un tempo eccessivo di credere in te stesso
e compiere, autonomo, il primo passo.
Oggi
il caco di Federico che nonno ha piantato
alla sua nascita nell'orto sotto casa, accanto
all'abete di Simone, fruttifica regolare ogni
stagione, mostrando di possedere radici salde ( e buone).
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L’ultima sezione del libro, E tutte le famiglie contadine / in attesa vana, è stata per me la più sorprendente, forse perché mi ero appena occupata di simili tematiche in una serie di conferenze sulla prima guerra mondiale, con una ricca documentazione di testimonianze dirette (saggistiche e poetiche), nonché di canti di trincea, noti e  meno noti, sugli anni durissimi di guerra di montagna.
Qui la poesia di Casagrande cambia registro: diventa rarefatto canto accorato di pianto e di rimpianto, le parole d’accusa per guerre e massacri restano, ma perdono la durezza, perché si stemperano e si alzano in un altrove senza tempo, dove il fluire della vita umana non si arresta mai e, generazione dopo generazione, guerra dopo guerra, gli uomini si giocano forzosamente l’esistenza, forse per degli ideali, ma più spesso per ragioni di stato oscure e delittuose, mentre il cielo sta a guardare senza apparente pietà , ma la montagna, partecipe ai massacri, piange e restituisce resti di eroi sconosciuti, con lacrime di nevi dissolte.
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Valeva la pena morire due volte
per un crinale? Prima di freddo
e paura ad ogni avvistamento, qualsiasi
movimento, vero o presunto. Poi
di pallottole o esplosioni o, semplicemente,
nei burroni.
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C'era chi moriva per l'ansa
di un fiume, uno spicchio di collina,
un prato. Chi viveva come talpe
nella neve, sognando un po' di sole.
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*
«Ciau, sono io. Anche oggi niente,
c'è sole, caldo per la stagione.
Ho messo il maglione che mi hai
regalato, mi sono scaldato appena
fuori della baracca, in luogo riparato.
Non un animale, non un soldato,
piatta calma, forse meglio. Si gioca
a carte, si beve, si scrive, tutti
intorno l'unica stufa.
Qualcuno prega».
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*
Quattro ragazzi sepolti quest'oggi
al Sacello del Grappa: trovati
sul monte, in punti diversi
rilasciati dai ghiacci. Morti
da cent'anni per un cumulo
di neve (un ordine superiore, forse
un ideale). Una breve preghiera,
una carezza lieve.
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È un libro che vale la pena di leggere in toto. Io ve l’ho presentato un po’ alla rinfusa: nel disordine che mi è proprio nelle letture. Non seguo quasi mai le sequenze logiche. vado dove mi porta il cuore o il caso… tanto prima o dopo i libri che valgono mi appassionano e li leggo in ogni loro sezione!
Marvi del Pozzo
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