top of page

Ex madre di Francesca Del Moro


Arcipelago Itaca 2022


Non conosco personalmente Francesca Del Moro, cinquantenne poetessa livornese, a Bologna per adozione, città questa ove conduce la sua vita di scrittrice e di operatrice culturale in varie direzioni artistiche.

L’ho vista di sfuggita una sola volta, al Circolo dei lettori di Torino, recentemente, all’inizio dell’estate, in occasione dell’importante premiazione del libro di cui vi parlo oggi. Credo tuttavia in una forma di conoscenza ‘spirituale’, con conseguente mio intenso apprezzamento del suo modo di essere (anche se solo intuito dalle letture) e di sentire (questo si evidenzia dalle cose che fa e del come le fa). Le mie impressioni derivano dall’avere letto alcune sue prefazioni a libri di poesia altrui, particolarmente incisive per lucidità concettuale e empatiche per sensibilità di approccio, nonché per avere io condiviso il taglio che Francesca ha scelto di dare alla traduzione di poeti francesi molto cari anche a me, Jules Laforgue in particolare, di recente.


Il libro di oggi è davvero sconvolgente: illimitato come il lutto di cui parla nel contenuto, ma pure di forma curatissima in ogni particolare, come è giusto che sia: il dolore massimo ha una sua religiosità, il suo ‘sacro’ terribile necessita di una lineare verità, pulizia e compostezza stilistica: solo così può trasferirsi, in tutta la sua sostanziale essenza, nell’animo del lettore per renderlo partecipe nell’unico modo possibile, di indicibile empatia, di comunicazione affettuosa e sincera. La prefazione al libro di Rosaria Lo Russo mi è sembrata già rispondere a questi canoni: di notevole spessore, esauriente nella sintesi, profondissima nei riferimenti culturali e nelle consonanze letterarie, quanto di assoluta, coinvolgente umanità. Non credo di essere capace di trovare altre parole ugualmente efficaci a trasmettere l’annullamento della vita di una madre alla morte, per giunta cercata, del giovane figlio amatissimo. È un dolore che si rifiuta, esistenzialmente e generazionalmente. Non è concepibile, non è legge di natura sopravvivere a un figlio. Eppure succede e chi resta ne esce schiantato per sempre: la madre muore col figlio, forse sopravvive alla morte fisica, ma non a quella dell’anima. Dice la prefatrice Lo Russo: neppure l’autrice, nessuno può restare a lungo su queste parole ordinate, metricamente ben disposte, di una semplicità disarmante, amichevoli, confidenti e confidenziali, inappuntabili e definitive… La madre è il luogo del lutto.  È da un luogo postumo, da una condizione positiva che scaturisce questa poesia… Non dal distacco che si fa stile sublime, ma da un’identificazione totale, l’orfanità della madre con il figlio morto che si fa stile umile, classicamente opposto allo stile sublime. Humilis, della terra, humus. Qui la prefatrice fa riferimento alla catarsi come distanziamento positivo dal dolore, cosa che avviene per esempio in Pianto antico di Carducci attraverso un sentimento di pacificazione lirica. Un distacco emotivo attraverso il sublime dell’Arte.

Qui il procedimento è esattamente l’opposto: in Francesca c’è tutto l’inserimento del dolore nella poesia: non cerca la fuga dal dolore nella poesia ‘alta’, ma parole poetiche che semplicemente, nate dalla terra, questo dolore infinito lo esprimano per lei. Come dice la prefatrice: [in questi versi] il corpo di chi scrive giace, un corpo rotto che cade nella scrittura. La poesia è un corpo sostitutivo, di parole, un corpo ricucito dalla scrittura di una mano estranea, alienata a sé, il corpo in balia del dolore infinito. Del resto già il titolo della raccolta Ex madre ci dice tutto. Una madre non più madre, mai più madre. Una donna che ha avuto un compito, un ruolo, una carica totale d’amore che non le spetta più: ex. Ma non solo questo: avviene in lei la perdita del sé più viscerale, la sua identità va in frantumi. Muore col figlio in quel momento e per sempre, perché il lutto è il luogo in cui ogni scansione temporale si annulla (Rosaria Lo Russo). Questa mater dolorosa, che ai piedi della croce muore insieme al figlio, quasi fisicamente e del tutto moralmente, trova il coraggio di raccontare, in certi versi, del suo corpo, ormai estraneo a sé, tenuto in funzione meccanica da farmaci e psicofarmaci, delle sue tappe di annientamento e solitudine, pur se aiutata da amici solidali e da persone care. L’affetto intorno è speranza minimamente consolatoria per lei che vede il suo corpo come fredda unità biologica da mantenere in vita, ma in realtà spento ad ogni passione vivificatrice.

Pur tuttavia l’autrice con grande forza interiore riesce, in alcuni momenti, a vedersi come dal di fuori, con amara ironia riesce a staccarsi da sé e a pennellare con pochi versi, tocchi legati alla società, agli ambienti degli uffici di polizia, per esempio. Ma la sua persona è dilaniata: ha bisogno di quel figlio ormai lontano in un mondo invisibile che vorrebbe raggiungere almeno per intuire il senso del tutto, ma da tutto è estraniata. Non è più né di qua né di là: mi guardo con tanta pena da un volto immaginario. Senza più identità. Un niente. Un grumo di dolore. Nasce in noi lettori una pena indicibile per questa sofferenza di creatura ibrida tra un mondo visibile e l’invisibile, estranea a entrambi, perché senza ragione né scopo o per vivere, o per morire del tutto.

Nella parte finale del libro capiamo che Francesca ritornerà a vivere e a sentire, o almeno si sforzerà di farlo, anche se non sarà mai più la stessa cosa né mai più potrà ritrovarsi nella persona che è stata:


Numero figli: zero.

L’innocente ferocia

di un banale questionario.

L’Amore mio immenso.

Zero.


Non penso che questo sia un libro da sezionare con annotazioni critiche più di tanto. A parere mio bisogna solo leggerlo e nella lettura lasciare emergere in noi emozioni e pensieri: è un’opera vera e intensissima, che i contributi critici della prefazione di Rosaria Lo Russo e della postfazione di Luigi Carotenuto puntualizzano in modo magistrale. Direi esaustivo. Conclusivo. Per questa raccolta, con ogni parola in più si rischiano letterarietà e artificio, lesivi ambedue della sostanza autentica ed effettuale del libro.

Vi lascio quindi a un vasto florilegio di letture che, tappa dopo tappa, segnano il percorso di questa indicibile via crucis.


Ho stretto l'urna contro il ventre,

pesava pressappoco come allora.

Un figlio lo contieni sempre

e ogni minuto io contengo,

ogni minuto sento dentro

mio figlio che muore,

mio figlio che decide di morire.


***

È arrivato anticipando

d'un soffio la primavera.

Da allora mi ha fatto solo fiorire.

Mi ha seccato l'eterno sole

del luglio in cui mi ha lasciato.

Come lui splendeva troppo

ai miei occhi, li accecava

E non ho visto la nera, lunga

notte in cui si incamminava.


***

L'estremo gesto, il gesto insano.

Il rapporto di polizia si concede

qualche cliché letterario.

Ma io ricordo bene

Il viso buono di chi quel giorno

mi ha fermato sulla strada

e gli occhi lustri di chi ci ha ridato

i suoi effetti personali

mentre i nostri si riempivano di lacrime

e il suo ripetere commosso:

non è colpa vostra, mi raccomando,

ricordate, non è colpa vostra.


***

Mi dicono il tempo

calmerà il dolore

ma io non voglio

perché il tempo che scorre

lo allontana, lo trattengono

questi morsi in tutto il corpo,

questi  morsi sono ancora lui.


***

La notte, nel letto,

cerco il suo abbraccio,

sento la pelle liscia

e dolce del petto,

nel buio intravedo

il viso calmo e saggio,

le palpebre socchiuse

e con terrore penso

che lui ha cancellato

le sue braccia, il petto,

il viso, il sorriso

che tutto illuminava

e i suoi occhi di miele.


***

Non ci vorrà troppo

– in questo la chimica aiuta –

tutti penseranno ch’è passato

e io avrò imparato

a portare con disinvoltura

il mio sguardo opaco

e il terrore dentro.


***

Imparare a portare il lutto

ora che il dolore non forza più

i confini del corpo,

che i morsi al cuore

si sono allentati,

che la rabbia è svanita,

che il pianto è più dolce.

Recuperare i ricordi buoni,

raccogliere tutte le foto

– alcune metterle in cornice –

portare i fiori al cimitero,

fare le cose che facevo prima,

aspettare di morire.


***

Raccogliamo le foto,

dividiamo i vestiti,

riempiamo dieci

borse da donare.

Ci vuole tempo

per chiudere una vita,

trasformarla in ricordo.

Sopra di noi, la luna

ha quasi ricomposto

il suo occhio sgranato

di quel giorno.


***

Mi strapperei un braccio,

lo giuro, purché tu soffra meno,

mi ha detto ieri al telefono

e ho sentito che era vero,

che se lo sarebbe amputato

lì, sul momento, se fosse servito

a ridarmi mio figlio.


***

Arrivati in cima,

staccarsi il male

dal petto.


Sentirsi sparire

nel vuoto che si apre.


Guardare il pezzo

di sé, così grande,

che cade.


***

Siedo accanto a me

per curare l’Anima

dalle sue ferite.


La osservo

con gli occhi pieni di pena,

la mano ferma

nel ricucire.


***

Il fondo rosso

di Porto nel bicchiere,

ripenso al sangue

tra le labbra di mio figlio,

edema polmonare massivo

si leggeva sul referto,

edema polmonare massivo

ripeto nella mente

mentre saliamo in camera

per fare l'amore,

mi sforzo di non piangere.





bottom of page