"La dimora insonne" di Daniela Pericone (Moretti & Vitali)
Particolarmente interessante in questo libro di Daniela Pericone mi è parsa la ricerca per la parola essenzialmente suono, ove il significante prevarica il significato in frasi lapidarie, dalla sintassi ardita per quanto non improbabile. Prioritario è seguire la sonorità dell’accostamento di singole parole rarefatte e seguirle alla maniera di un flauto magico: sono affiancate come note musicali e ci si sofferma all’incanto continuo di metafore sonore. Questo mi pare sia richiesto al lettore.
La magia della poesia è equivalente dunque al mistero della musica? È simile il procedimento creativo o alla poesia è richiesto qualcosa di diverso, così come del resto al suo fruitore? Sono le domande che istintivamente mi sono posta.
A me musica e poesia sembrano due forme d’arte simili, ma di tipo diverso: il linguaggio è sempre e comunque, tra gli uomini, la forma di comunicazione primaria e specifica e, in quanto tale, mi pare un imperativo l’essere comprensibile: il messaggio di chi trasmette – anche in poesia, al di là della ricerca della suggestione ed evocatività – non può trascendere dalla chiarezza di un dire in termini agevoli, percepibili – diciamo – dalla generalità dei lettori, anche da quelli non particolarmente ‘attrezzati’. Chi fa esperienza di laboratori poetici nelle scuole si rende conto di come i ragazzini, anche di scuole primarie o secondarie di primo grado, colgano l’essenza della poesia intuitivamente, aiutati – ovviamente in maniera inconscia, direi subliminale – da tutti gli espedienti tecnici tipici di tale genere letterario: assonanze, allitterazioni, figure fonetiche. Ma queste accortezze in genere avvengono secondo un filo immediatamente accessibile: per esempio, anche nella poesia ermetica le espressioni poetiche un po’ ricercate si realizzano in modo naturale, direi istintivo, in ‘semplicità’: nascono spontanee dal cuore prima che dalla mente e dalla ricerca ‘tecnica’ di un poeta, da esperienze umane che risultano trasferibili proprio perché immediatamente condivisibili, anche da bambini (vedi esperienze di guerra: Si sta / come d’autunno / sugli alberi / le foglie, dove il senso logico tuttavia è facilitato anche dal titolo: Soldati). Il senso logico comune aiuta ana-logicamente se non a capire, a intuire emozionalmente: pertanto, anche le anime semplici, lineari, dei ragazzini sentono la poesia, sono in grado di provarne l’empatica immediata bellezza. Ne deriva spesso in loro un senso di benessere e di pacificazione interiore, che si estrinsecano sia tramite parole sia nei loro disegni.
Quando capita a noi adulti (e di questi tempi succede piuttosto di frequente) di confessare di non capire, di avere bisogno di qualche riferimento logico-consequenziale da parte dell’autore, i casi sono due: o inadeguatezza del lettore, come può capitare talora a me, o insistenza del poeta su forme di ricerca tecnica figurativa esasperata, a scapito appunto della comprensione. Certe preziosità bizantine, certe oscurità barocche, il soffermarsi su elementi onirici o situazioni remote, astraendosi troppo dalla concretezza della realtà, ci allontanano dal cogliere il nucleo del messaggio dell’autore. È evidente che a questo punto, portando il discorso alle estreme paradossali conseguenze (non è certo il caso della Pericone, sensibile e valente, va detto) si potrebbe considerare magnifica, moderna, stupefacente poesia un accostamento di bellissime, sonore parole in libertà, senza capo né coda né filo logico – o ana-logico – sotteso. Possibilissimo, meritorio esperimento, questo, con tutti i limiti della sperimentazione e del fine divertissement intellettuale: ne abbiamo visti di tutti i tipi, anche molto pregevoli, da un certo Futurismo in poi. Ma la poesia è altra cosa. È di più.
A parer mio, comunque, poesia è qualcosa che permane e permarrà, al di là della volontà stessa dell’autore, al di là dei tempi e delle mode del periodo. Il nostro pensiero, il nostro dire, la nostra scrittura – almeno nella prospettiva ideale – dovrebbe avere come obiettivo la permanenza, non la precarietà, nel tempo. La poesia che non suscita sentimenti stabili o, meglio ancora, riflessioni volte al futuro, secondo me non è sufficiente. Non bastano le emozioni. Qualunque fenomeno umano, anche banale, è in grado di suscitare emozione: labile, fragile, passa subito e non ne resta traccia.
Capisco che a questo punto nessuno di noi, intimidito, prenderebbe la penna in mano. Non è il caso di essere pavidi per senso di inadeguatezza: l’impegno è non solo quello di dare limpida forma a concetti “oscuri e impervi” (Giuseppe Pontiggia), ma soprattutto di mettere in chiaro e a nudo coraggiosamente noi stessi e la nostra interiorità. Siamo tutti, per il fatto stesso di essere umani, “individui di frontiera” (Elisa Audino), con lo stesso destino attraverso percorsi differenti: bambini, giovani, adulti, vecchi. La pena, l’incomprensione, il dolore, la malattia, ma anche la gioia, l’amore, le realizzazioni toccano tutti noi in modo diverso, seppure con esito finale uguale. In modo diverso – ripeto – a ciascuno congeniale, troviamo il coraggio almeno in poesia di non cercare filtri, di non crearci maschere, fermandoci alla ‘forma’ preziosa, mirabilmente stupefacente, ma di celebrare le altezze e le miserie del vivere nella maniera il più possibile ‘chiara e distinta’ (come le idee di Cartesio!). Se diamo spazio al contenuto umano, almeno quanto alla forma con cui l’esprimiamo, allora i nostri versi non costituiranno un enigma per il lettore, tapino, e magari lasceremo traccia seminando qualcosa.
Ribadisco che la preziosità del dire di Daniela in questa pregevole silloge offre il destro di allargare il discorso, proponendo interrogativi particolarmente attuali, soprattutto per chi si occupa di poesia contemporanea. Del resto la poesia, quando è vera, ha il dono di fare pensare, di proporre stimoli, di non fermarsi mai perché è inesauribile di suo, e fa quindi andare avanti nella ricerca non solo dell’arte e del Bello, ma della conoscenza profonda di noi stessi e del mondo.
Sul tema del valore della poesia in sé e sulle motivazioni individuali della propria scrittura sarebbe stimolante, ritengo, aprire un dibattito libero e sereno, in cui la finalità non sia convincere gli altri o, peggio, dare una pretesa soluzione univoca, ma confrontarsi perché ognuno, io per prima, chiarisca a sé stesso il senso ultimo del suo scrivere poesia. In questo senso il libro di Daniela Pericone mi è stato determinante.
Per assaggiare la poesia di Daniela, dalla musicalità complessa, ricca di emozioni inquiete, di momenti di armonie, ma più spesso di dissonanze, di concretezza, ma più sovente di oscurità misteriosa al limite dell’impervietà (mi accorgo di servirmi ripetutamente di questo termine di Pontiggia), riporto alcuni significativi testi dell’autrice volutamente senza mio commento, poiché la parola poetica da sé si faccia strada nella mente e nel cuore del lettore, che possa quindi coglierne più liberamente le implicazioni. È in effetti poesia complessa, spesso rarefatta e indeterminata, di grande magnificenza stilistica che avvolge il lettore in un clima stupefatto e suggestivo, in una magia del dire che si fa trascinante. È richiesto un ascolto paziente nella libertà di seguire la corrente dei versi, al di là della stringente logica della comprensione.
Marvi del Pozzo
*
Strani cieli
sussistono al nostro passaggio
inerme a scalfire la pietra
– l'insorgenza del fiore
è un lampo dall'acqua
alla polvere.
*
Scivolavi tra le dita
senza un appiglio, tacendo
disfatte – si confonde
l'incendio con la polvere.
Non resta che asciugare
il fiato, ancora scendere
fino al dolore – tuttavia
sostare leggeri, risolvere
enigmi da nulla, cambiare città
per continuare a star soli,
concentrarsi tanto da sentire
l'esplosione sul pianeta accanto
– una luce obliqua, un basso
continuo, il tuono non vede
la sua fine.
*
La mia casa non respira
bisognosa com'è di solitudine,
in un tempo che è un seguito
senza fioritura solo indizi
di naufragio – ora si rincorrono
visioni, nulla era deciso eppure
preciso l'ordito, l'epilogo.
Andrò con queste acque
sotto le palpebre.
*
Sporge i suoi rami
la sconfitta, piega
baldanza, rintocca
da faglie, sepolture –
scrosta il dolore
a un cenno distruggi
la carezza, la notte
è un'eco che si perde.
*
Risento la grazia
del tuo avvento, novembre
di burrasca o ritrosia
consacra i suoi talenti.
Paesi elusivi, nostalgia
di cortili, congedano errori
a dare incerta andatura.
Ora so del dubitare
la magnificenza.