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"L'abitudine degli occhi" di Monica Martinelli (Passigli 2015)

C'è dato un tempo


per ogni tempo.

C'è una magia in ogni cosa,

nel perdono

in un bacio che ferma l'addio

nella ragione di essere nati.


Penso non sia il cambiamento

ma l'abitudine

l’unità di misura dei viventi,

ciò che ci rassicura e ci consola

ciò che ci viene naturale fare.


E poi gli occhi,

con cui misuriamo la realtà

che sia di fiato e di sabbia,

che ci prepari alla nostalgia

o all'abbandono.


È come seguire la danza

di una foglia nel vento

e indovinare da quale parte cadrà.


*


Respiri emanano calore


sopra l'abitudine dei sensi.

Sapere se la terra ha corpo e mani

e il cielo occhi

per vedere quanto colore

c'è in un sorriso,

o in quel sasso che riflette luce

e si chiede qual è il suo posto

come io qui.


*


Tra cera colata

e odore di incensi e memorie

si consuma la vita su mosaici

scoloriti da occhi e tempo.


Visi e teschi si fanno compagnia

in un avello senza tormento.

Il sacrificio del corpo e del sangue

si riduce a un fermo immagine

nel mestiere moderno di fare copia

e calco di ogni cosa sia stata nella storia.


Ma anche riprodurre è un'illusione

se il tempo non si ferma, non rimane.

Ecco perché qualunque senso è poco

di fronte a ciò che ci fa più grandi.


Firenze, Chiesa di San Miniato


*

Vorrei avere lo scatto di un geco

che guizza per fuggire,

la sintesi nei suoi movimenti

l'agilità di saltare i sentimenti difficili

essere minuscola e nascondermi

o confondermi con ciò che mi circonda,


scegliere sentieri facili da percorrere

nessuna asperità sul terreno

solo foglie rosse e dorate

e un tappeto di sogni

dove sdraiarmi a pensare che sei vita

sei spinta alla vita

e io sono corsa incessante per raggiungerti

nell'umano mistero della felicità.


Ho avuto in dono da Monica Martinelli, l’autrice, creatura gentile ed aggraziata come una figura botticelliana, il suo libro qualche anno fa: mi pare di ricordare poco dopo la pubblicazione e l’ho molto apprezzato.

Perché non ne ho parlato prima? Perché l’ho lasciato decantare per quasi un lustro?

La risposta ha richiesto molto tempo ed una indagine su me stessa quasi psicanalitica, che è stata faticosa e da cui rifuggivo con mille scuse: alibi per non volere far chiarezza su certi aspetti di me, contraddittori o aggrovigliati che mi squinternavano, o comunque non rientravano a formare quell’equilibrio globale di persona cui tendo da sempre. Con scarso successo evidentemente, da quanto dico.


Monica Martinelli, nell’assoluta diversità con la mia persona - nell’anagrafe (lei è giovane), nella formazione tecnica, economica, finanziaria, nell’attenzione al mondo delle scienze (fisica, chimica, geologia, come emerge anche nelle sezioni del suo libro), tutti aspetti totalmente divergenti dalla mia forma mentis - aveva trovato la chiave per entrarmi dentro. La sua poesia mi faceva da specchio in quello “sconforto di essere creature” che stimola alla vita, ma estenua, nel desiderio di slanci, di voglia di fare, di lasciare tracce chiare del nostro passaggio, ma che sfuma in troppi momenti di inadeguatezza che lasciano inappagati, dolenti fino allo stremo delle forze mentali. Monica era troppo per me, per questo le sfuggivo: per mia vigliaccheria. Finché ho potuto. Per quasi cinque anni. Ma, come dice giustamente lei nella bellissima poesia di esordio del libro - la prima che vi ho proposto - riecheggiando il testo del Qoelet (Ecclesiaste), arriva un momento per ogni cosa.


Penso adesso alla verità della seconda strofa della poesia di Monica: non il cambiamento (raro momento di esaltazione), ma è

… l'abitudine

l’unità di misura dei viventi,

ciò che ci rassicura e ci consola

ciò che ci viene naturale fare.


Penso, in questi tempi di coronavirus, a quanta gioia nel mio stare con la persona amata asserragliata a casa, a meditare su me stessa e sull’abitudine degli occhi, a cercare di capire meglio che cosa voglio ancora fare nella vita e cosa, realisticamente parlando, sono in grado di fare. E poi lavorare ai miei studi con testa, con cuore, con volontà, con amore. Nell’abitudine la creatività: tra quattro mura tutta la gamma dei contrastanti sentimenti dell’uomo. La speranza con la disperazione, la nostalgia  insieme alle progettazioni, l’utopia con la rassegnazione. Noi siamo tutto e il contrario di tutto. Da qui la ribellione, la rabbia, contro la nostra magmatica mente, contro lo squilibrio, nel tentativo forse vano di riuscire a trovare un approdo.

In una sua poesia Monica dice:


ogni cosa cerca spazio

per trovare ormeggio

nel corpo in cui dimora.

E poi ci si affeziona anche al dolore

all’ospite sgradito

ignaro di solitudine.


Ribadisco che comunque Monica è troppo sfaccettata per me. Valgono, in relazione a lei, le parole che Juan Gris scrisse al grande poeta Vicente Huidobro, che gli aveva dedicato il volume Poesie artiche: “ E’ troppo bello per me, non riesco a penetrarlo”. Parole semplici ma essenziali nella loro verità.

Ne parlai un giorno con la mia amica Cinzia, poeta e cultrice di poesia sudamericana. Mi capita, di fronte a testi poetici magari singoli, meno spesso rispetto ad autori in generale, di sentirmi invasa come da un’ondata sentimentale che prende totalmente per profondità e bellezza, ma lascia inermi, senza parole, anche perché ogni parola diventa inadeguata a definire ciò che si sente. Può essere la possessione da parte delle Muse di cui parla nel Fedro Platone? O quella che ha provato un paio di volte Orazio, poeta apollineo, di fronte alla dirompenza dionisiaca della poesia di Libero - Bacco?

Non lo so. Posso dire che la poesia di Monica mi ha creato problemi per “eccesso”. Per questo motivo non tento neppure di avvicinarmi a questo libro prezioso in maniera sistematica. Vi ho offerto pochi spunti con i quattro testi riportati più sopra, di diversa connotazione. Io li amo tutti: desidererei che fossero letti più di una volta e uno per volta; vorrei che il lettore si lasciasse penetrare, avvolgere, non solo dalle parole ma dallo spirito che dai versi si espande, occupa spazio, esterno ed interiore, fino forse a cambiare negli altri le abitudini degli occhi e, ancor più, dell’anima. Solo dopo il lettore può riflettere. E’ questione di un momento fulminante o di cinque anni. Dipende dalle persone.


Mi piacerebbe segnalarvi, come conclusione, questa poesia scritta al mare di Sperlonga al tramonto. Io la trovo perfetta: il contatto con la natura, simbiotico, porta all’introspezione non solo del sé, ma dell’epopea di ogni uomo alla ricerca di una pacificazione finale, ove ogni dolore spezzato su scogli rassegnati si plachi in grande malinconia, senza confini nel mare e nella sera.


Mi smarrisco nel rumore del vento

e nel continuo accadere

di onde pazienti

che nel fragore si danno voce.

                                   

Il pensiero si stordisce nel ricordo

e si ferma a cercare ristoro

da un dolore ininterrotto

che si spezza su scogli rassegnati.


Ma quando il sole spegne la sua luce

e le onde si muovono nel modo giusto

lì si accende la grande malinconia

che solo il mare può vedere.


Sperlonga, al tramonto



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