Ritratto di Alessandro Manzoni - Francesco Hayez - 1841 - Milano, Pinacoteca di Brera
Spunti di riflessione sulla sua poetica: fenomenologia de Il cinque maggio
In occasione dei 150 anni dalla morte di Alessandro Manzoni, alcune considerazioni poco accademiche, alla luce dei giorni attuali.
Non si discute sul romanzo: I promessi sposi non si discostano dalle grandi pitture storiche e di ambiente dei grandissimi: Tolstoj, Balzac, per giunta con capacità psicologiche in certi personaggi che lo fanno avvicinare a Dostoevskij. Però Tolstoj è nato nel 1828, quando I promessi sposi avevano già avuto la prima stesura (1825/27), Dostoevskij è nato nel 1821. Solo Balzac è contemporaneo, non parliamo di Proust che scrive Alla ricerca del tempo perduto tra il 1913 e il 1927. Quindi Manzoni è antesignano di tutte le peculiarità della narrativa del periodo a lui posteriore.
È figlio del suo tempo, Manzoni: è l’età del Romanticismo e ne accoglie le istanze internazionali: il suo è romanzo storico, alla Walter Scott, per celebrare non i potenti della terra ma o i piccoli, o chi di alto lignaggio sposa la causa dei piccoli, cioè della maggioranza della gente, quella che alla lunga farà la storia e non solo la subirà, come è sempre successo nei secoli. Le vicende hanno fondamento concreto, addentellati storici ben precisi, non sono storie da fantasy, da Trono di spade o da telefilm odierni, che pure avevano nella narrativa molto successo anche allora, soprattutto in Germania e in Inghilterra. I punti forti sono nel Manzoni da un lato quelli stilistici: il problema di una lingua unica e chiara, che cementi tante regionalità in una sola unica nazione (ideale del Risorgimento italiano), ma soprattutto un’idealità comune, che faccia di gente ‘dispersa’ un popolo; la religione, come tradizione e credo comune, massimo collante popolare per il raggiungimento di una unità nazionale. Sono concetti ricordati qui superficialmente, perché non è questo l’argomento di oggi, ma forse era bene riepilogarli per sommi capi.
Questo per dire che chi è grande romanziere non è detto sia grande poeta, anzi avviene quasi sempre che i generi letterari diversi richiedano doti diverse e chi ha eccellenza in un campo raramente lo abbia nell’altro. Personalmente a me viene alla mente un nome solo, eccellente nei due campi, prosa e poesia: Borges, per me quasi un unicum. Da noi anche Pavese, a parte una dozzina di poesie, ad essere ‘generosi’, non ha scritto nulla che possa paragonarsi ai romanzi La bella estate, Il compagno o La luna e i falò. È opinione personale. Va detto, ma bisogna avere il coraggio di riconoscere e sostenere le proprie convinzioni letterarie.
Non amo la poesia di Manzoni, anche se riconosco che è stata funzionale allo sviluppo del Risorgimento italiano, ma aveva uno scopo, per lo più strumentale, di formazione civile. La caratteristica primaria della poesia è un’altra: è capacità evocativa, è parola ‘significante’, è creatrice di libertà, di emozione, di volo, di pensiero, persino di promulgatrice di arte nuova in chi legge o ascolta. È vero che, vivaddio, è importante nella poesia anche una funzione civile, sociale, di presa di coscienza, di assunzione di responsabilità di fronte al mondo – ci mancherebbe altro –, ma la suggestione nel lettore deve avvenire per mezzo della forza dell’arte, della parola libera che spinge appunto ad una libertà nelle idee e nell’azione, dettate da un forte convincimento personale raggiunto, a volte con travaglio, non per un pensiero instillato e praticamente imposto a ripetizione in poesia, giocando con la propria competenza di strumenti tecnici e stilistici usati all’uopo, cosa che vi farò notare, esemplificando tramite Il cinque maggio, testo tra i più conosciuti e celebrati della poesia manzoniana.
La poetica di Manzoni è incentrata sul pensiero cui voleva convincere, tramite la poesia appunto, i suoi contemporanei. Come già mise in luce fin dagli anni ’80 Giulio Bollati,[1] il pensiero di Manzoni rappresenta meglio di qualsiasi altro l’ambiguità, per non dire aporia, tra due fenomeni contrastanti. Da un lato lo sviluppo di una società borghese di stampo liberista porta a una spregiudicata subordinazione dei mezzi al fine prioritario di uno stato nuovo indipendente, che permetta all’Italia di superare il ritardo politico e civile rispetto ad altre situazioni d’Europa, d’altro canto il conservatorismo imperante è freno non indifferente. C’è paura di spinte rivoluzionarie, che scardinino lo status quo, cioè quella civiltà umanistica e cristiana, fondata su stabilità di classi sociali, di cui la terra, l’agricoltura, è base naturale. La poetica manzoniana sceglie questa seconda strada, cioè il mantenimento di una società organica a fondo agricolo, dove non c’è gara o ricerca di sopraffazione, ma una grande benevolenza di tutti verso tutti, in una società né tirannica né repressiva, in un certo senso ‘democratica’, in difesa contro ogni spinta rivoluzionaria o contro ogni spavalda corsa liberale verso industrialismo e cambiamenti radicali.
Questi valori, che fanno parte della poetica manzoniana, trovano leva necessaria in un’etica religiosa per il mantenimento della pace sociale (carità verso i poveri, assistenzialismo, paternalismo) che non tollera il cambiamento dei rapporti di classe. La massa per Manzoni è pericolosa (vedi i moti di Milano ne I promessi sposi: la sua critica feroce nel’esemplarità del ‘vecchio malvissuto’). La religione impone di non reagire alle sopraffazioni in nome della Fede nell’al di là e dell’imitazione di Cristo: impone a ciascuno di attendere ai doveri inerenti al proprio stato, con pazienza e benevolenza reciproca. È una società quindi immobilista, retta da un moralismo religioso, in fondo molto conservativo, rigoroso e gretto. Ne consegue una morale immobilista che conduce alla stasi, all’inazione politica.
Nella poesia che consideriamo oggi – Il cinque maggio – emerge da un lato il rifiuto di considerare gli eventi e l’azione del personaggio storico protagonista (Napoleone). Pericoloso prendere una posizione storico-politica, meglio non parlarne e affidarsi a un’ipotetica azione divina al momento del giudizio finale, di cui l’uomo nulla sa, può solo sperare in bene. Pavidità. Di questo passo, portando alle estreme (forse paradossali) conseguenze, non ci si esprimerebbe mai di fronte ai peggiori crimini della storia: Hitler, Stalin, Pinochet… Putin? Brutta posizione l’ignavia, e… pericoloso insegnamento: una attitudine pilatesca. Manzoni perpetua, per conto suo, quell’eterno vizio di girarsi dall’altra parte, ma nell’apparente bonomia del dire: chi sono io per giudicare e prendere posizione? In queste parole non si nasconde necessariamente un animo eletto. Oggi gli eredi di questo tipo di pensiero sono tanti: quelli che si lavano le mani nelle tragedie di Cutro o dell’Ucraina, per esempio. Del resto per il Manzoni non c’è soluzione terrena per chi è vittima della ragion di stato o dei soprusi dei potenti. Esemplare è la tragedia Adelchi: come per il fratello, all’infelice Ermengarda nel Coro dell’Atto quarto non resta che la speranza dell’al di là e l’invito poetico ripetuto: “muori!”. Imperativo quasi ‘categorico’, ripreso per ben quattro volte nel testo (versi 16 – 88 – 105 – 109). È legittimo essere più che perplessi, dopo 150 anni?
Consideriamo ora i mezzi stilistici funzionali a trasmettere questi contenuti. È importante per l’autore arrivare al massimo numero possibile degli italiani futuri, quelli, pochi ancora, comunque in grado di scrivere, leggere e capire.
Analizzando Il cinque maggio, ode composta in pochi giorni (dal 17 al 20 luglio 1821) sull’onda delle emozioni seguite alla notizia della morte di Napoleone a Sant’Elena, la prima considerazione va alla struttura metrica dell’opera: leggo nei libri di scuola che si tratta di sestine di settenari, il primo, il terzo, il quinto sdruccioli, il secondo e il quarto piani, l’ultimo verso della sestina è tronco e rimato col verso finale della strofa successiva, pure tronco. È vero questo, secondo le strette regole dell’accentazione, per cui il verso che termina con una parola sdrucciola conta per sette sillabe anche se è in pratica un ottonario, così come vale a mo’ di settenario il senario che termina con parola tronca. Ma alla lettura ad alta voce questo espediente mi pare che valga poco: la metrica italiana è sostanzialmente sillabica e risulta quindi la musicalità di un ottonario (1° - 3° - 5° verso) affiancata a un settenario (2° - 4° verso) e a un senario nel sesto verso. Nella dinamica della lettura questo risulta evidente.
Che significa in pratica ciò ne Il cinque maggio? Che c’è un andamento ritmico altalenante, funzionale perché facile alla memoria del lettore-ascoltatore, ma non è da filastrocca popolare o addirittura bambinesca, cosa che l’uniformità del settenario rigoroso avrebbe impresso, del tutto inadatta ad un argomento così importante e serio. Del resto, se proviamo a leggere di seguito i settenari (cioè il 2° e il 4°verso di ogni strofa) andando avanti per un poco vedremo il risultato… Inadeguato! Così Manzoni anticipa in qualche modo l’uso di un verso libero, ma in un insieme molto agevole e sonoro, in quanto il suo intento è quello di rivolgersi a un pubblico il più vasto possibile, anche a quello meno colto, meno ‘attrezzato’ culturalmente, col verso breve, con l’uso di parole tronche, musicali e semplici, che facilitino anche la memorizzazione.
L’architettura metrica ci fa comunque capire come il Manzoni fosse poeta profondamente conoscitore delle norme tecniche e stilistiche e se ne servisse sapientemente per avvicinare, anche con espedienti psicologicamente efficaci, il lettore al testo e soprattutto al pensiero ad esso sotteso. Questo gli va riconosciuto e… tanto di cappello! È facile questo testo, si impara facilmente a memoria: il lettore, agevolato dal ritmo cantilenante, dalla ripetitività della strofa che termina sempre tronca, non dimentica perché è come il ritornello musicale ricorrente di una canzone – mi si perdoni l’azzardo – ma di fatto è così, che piaccia o no.
È un testo che vuole avvicinare tutti, anche i semplici di spirito: nell’economia del linguaggio, il ritmo concitato dell’epopea napoleonica è caratterizzato da brevi sintagmi simmetrici (versi 25, 26, 29-30, 43-48, 79-84), da tempi verbali che danno il senso della rapidità degli eventi e della fugacità del tempo umano: tutto ei provò – ei si nomò – si assise – e sparve. Si cerca di provocare un convincimento facile: attraverso una serie di similitudini (come – siccome), di comparazioni: attraverso metafore comuni passa il motivo della disillusione umana, del cumulo schiacciante dei ricordi, della vacuità del tutto. Questo allo stesso modo ne Il cinque maggio e in Ermengarda. Ma se la cosa fosse già difficile al lettore, meglio aiutare con l’arte retorica, con la ripetizione anaforica delle esclamazioni (oh quante volte…). L’enfasi può aiutare a fare passare in modo efficace il messaggio globale, introdotto già al verso 31 da un punto di domanda, senza presa di posizione umana: fu vera gloria? – Nui chiniam la fronte al massimo fattor… Si delega il giudizio a Dio, sembra che l’intelletto umano non sia in grado di farsi un’opinione. La retorica ci accompagna dal verso 70 alla fine con la serie di aggettivi che qualificano la fugacità dell’epopea umana: mobili – concitato – celere (versi 80 – 84) contrapposta al climax ascendente che si inizia al verso 85 e introduce il motivo della buona morte e del ritorno alla fede in Dio, in una immaginazione edificante che culmina nell’ipotetica visione di salvezza finale. L’al di là come deus ex machina di ogni vivente. Simile la situazione di Ermengarda nel coro atto IV dell’Adelchi. Non è possibile non riconoscere le capacità tecnico-narrative del Manzoni, ma neppure è possibile, alla luce dell’oggi, non considerare la questione determinante che il piano della storia e quello dei valori religiosi non sono coincidenti e non vanno mescolati.
Ciò che mi stride, nella poesia del Manzoni, è che i conflitti tra gli interessi politici e quelli della teologia gli fanno costruire personaggi ‘bloccati’, portati alla fin fine all’inazione, personaggi irrisolti (in particolare Adelchi, Ermengarda) da poter aspirare solo alla non vita, alla morte. L’autore trasforma forzatamente – attraverso gli elementi lessicali, grammaticali, fonetici della poesia – eventi politici in storie esemplari in un senso religioso che vorrebbe essere edificante ma, a parer mio, è solo irrisolto.
La lirica manzoniana è tutta prevista, prefigurata, calcolata, non è libera, non è mai aperta: l’aggettivazione frequente riporta sempre a qualifiche morali, tutto è già scontato, mai problematico. Le interrogazioni sono retoriche, non aprono dubbi, la risposta è implicita, le forme spesso usate dell’imperativo sono costrittive, non prevedono libertà di scelta: ma che irrespirabile prigionia! Già negli anni Sessanta Barberi Squarotti – nel suo libro Teorie e prove dello stile del Manzoni, Silva edizioni 1965 – chiarisce come i personaggi della lirica manzoniana costituiscano un mondo di modelli’ esemplari’, di cui posseggono tutta la fissità, l’immutabilità, ponendosi come valori di testimonianza fissata ab aeterno dall’autore. Già messo in crisi negli anni Sessanta, questa forma di paternalismo manzoniano oggi, a maggior ragione, non si regge più, né come contenuto concettuale (se non come testimonianza storica) né come produzione poetica, zeppa come è di artifici retorici, di enfasi, di imperativi categorici, da una parte, di formule di edificazione religiosa, dall’altra.
Personalmente metto in crisi un pensiero ‘unico’, che stimola al ‘vogliamoci bene comunque’ e al non pensare pericolosamente con la propria testa al fine di mutare ciò che mutabile non è, ma ugualmente metto in crisi la forma linguistica sorpassata, retorica, paternalistica (per quanto abilissima) con cui si intende fare passare il contenuto.
Manzoni ha un rispetto eccessivo per l’ordine costituito: forse gli è rimasto qualche brandello di ancien régime, quando si regnava per volere divino e la mobilità sociale era solo utopia di sovversivi? Domanda retorica nello stile della lirica manzoniana!
[1] Giulio Bollati, L’italiano, Einaudi 1983
Il cinque maggio
Ei fu. Siccome immobile, Dato il mortal sospiro, Stette la spoglia immemore Orba di tanto spiro, Così percossa, attonita La terra al nunzio sta, Muta pensando all’ultima Ora dell’uom fatale; Nè sa quando una simile Orma di piè mortale La sua cruenta polvere A calpestar verrà. Lui folgorante in solio Vide il mio genio e tacque; Quando, con vece assidua, Cadde, risorse e giacque, Di mille voci al sonito Mista la sua non ha: Vergin di servo encomio E di codardo oltraggio, Sorge or commosso al subito Sparir di tanto raggio: E scioglie all’urna un cantico Che forse non morrà. Dall’Alpi alle Piramidi, Dal Manzanarre al Reno, Di quel securo il fulmine Tenea dietro al baleno; Scoppiò da Scilla al Tanai, Dall’uno all’altro mar. Fu vera gloria? Ai posteri L’ardua sentenza: nui Chiniam la fronte al Massimo Fattor, che volle in lui Del creator suo spirito Più vasta orma stampar. La procellosa e trepida Gioia d’un gran disegno, L’ansia d’un cor che indocile Serve, pensando al regno; E il giunge, e tiene un premio Ch’era follia sperar; Tutto ei provò: la gloria Maggior dopo il periglio, La fuga e la vittoria, La reggia e il tristo esiglio: Due volte nella polvere, Due volte sull’altar.
Ei si nomò: due secoli, L’un contro l’altro armato, Sommessi a lui si volsero, Come aspettando il fato; Ei fe’ silenzio, ed arbitro S’assise in mezzo a lor. E sparve, e i dì nell’ozio Chiuse in sì breve sponda, Segno d’immensa invidia E di pietà profonda, D’inestinguibil odio E d’indomato amor. Come sul capo al naufrago L’onda s’avvolve e pesa, L’onda su cui del misero, Alta pur dianzi e tesa, Scorrea la vista a scernere Prode remote invan;
Tal su quell’alma il cumulo Delle memorie scese! Oh quante volte ai posteri Narrar se stesso imprese, E sull’eterne pagine Cadde la stanca man!
Oh quante volte, al tacito Morir d’un giorno inerte, Chinati i rai fulminei, Le braccia al sen conserte, Stette, e dei dì che furono L’assalse il sovvenir! E ripensò le mobili Tende, e i percossi valli, E il lampo de’ manipoli, E l’onda dei cavalli, E il concitato imperio, E il celere ubbidir. Ahi! forse a tanto strazio Cadde lo spirto anelo, E disperò: ma valida Venne una man dal cielo, E in più spirabil aere Pietosa il trasportò; E l’avviò, pei floridi Sentier della speranza, Ai campi eterni, al premio Che i desidéri avanza, Dov’è silenzio e tenebre La gloria che passò. Bella Immortal! benefica Fede ai trionfi avvezza! Scrivi ancor questo, allegrati; Chè più superba altezza Al disonor del Golgota Giammai non si chinò. Tu dalle stanche ceneri Sperdi ogni ria parola: Il Dio che atterra e suscita, Che affanna e che consola, Sulla deserta coltrice Accanto a lui posò.
Kommentare